Essere meridionali – di Serena Rotondo

Essere meridionali

Ho inconsapevolmente scoperto di essere meridionale quando avevo otto anni. Forse nove, non ricordo bene. È successo mentre ero sul marciapiede, in attesa che scattasse il verde per noi pedoni, pronta per attraversare, evitando con cura di mettere i piedi al di fuori delle strisce pedonali, come fanno molti bambini. Mi trovavo in vacanza a Genova con i miei genitori. Ricordo perfettamente che, nel momento in cui è scattato il verde, una folla ordinatissima di pedoni ha attraversato la strada con passo deciso, come se stesse girando un film e fosse diretta da un regista. E il comportamento delle automobili non era da meno: tutte perfettamente coordinate nell’attraversamento e nella successiva sosta al semaforo. O almeno questa era la mia percezione. Ricordo di essermi girata verso mia madre e di averle detto, con non poca meraviglia: “Mamma! Ma qua si fermano tutti al semaforo!” In quel momento, pur non rendendomene conto, data la mia giovane età, ho inconsapevolmente scoperto di essere meridionale. In quel momento mi sono stupita dell’ordinato comportamento urbano dei genovesi, scoprendo inconsapevolmente di provenire da una realtà caotica, al di fuori di ogni regola. Sicuramente se tornassi ora a Genova, portando con me tutte le costruzioni sociali che negli anni si sono impossessate della mia identità (oppure che l’hanno forgiata, questo devo ancora capirlo, ma più o meno è la stessa cosa), individuerei altre mille sfumature del rapporto tra i genovesi e il codice della strada, ma questo non conta. Quello che conta è che io, in quel momento, su quel marciapiede, per la prima volta nella mia vita, ho avuto la percezione di essere, in un certo senso, “diversa” rispetto al contesto in cui mi trovavo: in quel momento ho inconsapevolmente scoperto di essere meridionale.

Ma che cosa vuol dire essere meridionali? Definire la meridionalità è un po’ come delineare la napolitanità: un’arma a doppio taglio. Perché, nel farlo, si finisce quasi sicuramente per cadere nella trappola dei luoghi comuni, degli argomenti sentiti e risentiti. Onestamente, non credo sia possibile fornire questo genere di definizioni senza ricostruire l’identikit di uno stereotipo. Se nemmeno Luciano De Crescenzo ci è riuscito, come posso mai sperare anche lontanamente di riuscirci io! Però una cosa posso farla: posso provare a dirvi cosa significa per me essere meridionali. Non si tratta di definire il concetto, ma di attingere dalla mia interiorità. Alla fine funziona sempre così: se si vuole dire qualcosa di vagamente originale o autentico, è bene non discostarsi troppo dal proprio mondo, da ciò che si conosce veramente, che si è direttamente o, al massimo, indirettamente vissuto. Solo le menti geniali e quelle particolarmente acute riescono a raccontare una realtà distante anni luce e, allo stesso tempo, non risultare scontati o artificiosi. E io sono distante anni luce dall’essere una mente geniale e non sono mai stata particolarmente acuta, quindi non ci provo neanche.

Secondo me, essere meridionali è innanzitutto uno status, una condizione interiore che poco o nulla ha a che vedere con la simpatia, la carnalità, “l’arte di arrangiarsi”, il tono di voce alto, la disponibilità, la “filosofia di strada”, la “puzza”, la miseria, il dialetto, la superstizione, e non dipende nemmeno necessariamente dalla provenienza geografica. Secondo me, è quella condizione interiore che ci fa sentire leggermente fuori posto quando non siamo nel “nostro mondo”, e con questa espressione non mi riferisco a un preciso spazio fisico, ma a un qualcosa che percepiamo come nostro, in cui ci identifichiamo. È una dolce forma di provincialismo insito in noi, che resiste, nonostante tutto. Una dolce forma di provincialismo che va sicuramente individuata, modellata e corretta, ma non del tutto eliminata. Perché se la perdiamo, se non la conserviamo con sincerità, smettiamo di essere meridionali e finiamo anche noi per attraversare la strada con passo deciso, tutti perfettamente coordinati e ordinati, come se fossimo in un film e stessimo interpretando il ruolo di noi stessi.

Serena Rotondo

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