Il caos del popolo. Il caos dei vicoli-Forcella ed un pallone

Il caos del popolo. Il caos dei vicoli.

Forcella ed un pallone

Trovo noioso parlare di Napoli solo dalle altezze di un panorama. Credo che nessuno possa giudicare dall’alto questa città, eccetto il Vesuvio.
Trovo distensivo il dissolvimento del caos in riva al mare, tra profumi e fiori colorati solo quando mi sono autoinflitta il caos.
Il caos del popolo. Il caos dei vicoli.
Allora sì.
A Napoli come nel mondo. Andassi nel paese carioca, la prima cosa che farei sarebbe quella di visitare le favelas.

Questo spirito diviso a metà tra ricerca di quiete nell’irrequietezza, mi ha sempre portato a capire, a conoscere, a voler trovare un fiore nel letame. E ci sono quasi sempre riuscita. A niente servivano gli ammonimenti di mio nonno che da bambina mi vietava di andare a Forcella da sola. La mia testa è sempre stata difficile da domare.
Mi pare di sentirlo: “Non passare di là, vai dritta per il duomo.”
Se mi vedesse anche ora, a 30 anni, in questi vicoli perduti, mi spezzerebbe le gambe. Difficile che mi arrenda ad un dato appreso da altri, ed è difficile che accetti qualcosa se non trovo le ragioni per farlo. Ed il “pericolo” non è una ragione.

Il caos mi serve per godere dell’ordine dei pensieri alla fine. Ricomporre pezzi per poi rimescolarli, perchè quando questa città non mi scomporrà più in mille pezzi, significa che sarò intera e che potrei addirittura lasciarla.

È da Forcella che penso, mentre imbocco una salita, sotto un sole ancora tiepido del primo mattino. Arrivo in un posto che è fortezza da stadio.
Non mi interessa raccontarvi la storiella abusata degli ultras che una ne racconti e mille sono uguali. Tra l’altro, in giovanissima età, ero fidanzata con uno di loro. So bene come vivono, di che vivono e quanto vivono.
Esiste un distacco positivo dalle nostre esperienze che ti fa assimilare solo alcune cose per poi rielaborarle secondo indole e lasciano nella memoria altre, parcheggiate in un angolo buio della mente, al riparo, in isolamento.
La rielaborazione è seme che fa germogliare, perché tutto ha una sua validità e i pezzi si rimescolano per poi unirsi nell’interezza. D’altronde, a me la gente banale non è mai piaciuta, potrei sintetizzare così.

Però, sì. È ultrà questo microcosmo di Napoli, uno dei tanti. È limite, è oltre. È una piazza pensata, da chi la vive, in totale anarchia, è fuori da ogni canone.
È casa, è parcheggio, è area ristoro, è concertino matttutino delle donne che dai bassi e dai balconcini strizzano le pezze.
È una canottiera bianca di un uomo affacciato alla finestra che fuma la sua prima sigaretta dopo il caffé.
È il ragazzo che sta facendo il giro del pane. È caos. Anche di mattino presto perché qui non si dorme mai. Non esiste una casa in cui si chiudono le persiane e le porte, è tutto all’esterno, è tutto condiviso. È tutto per strada.

C’è una bambina, che gioca con una bambolina spettinata, nello spazio abusivamente creato davanti ad un basso, è chiusa in un recinto. Quello che credo sia suo nonno è seduto accanto a lei su una sedia, sta bevendo il caffé. La bambina è in mutandine e canottiera rosa, ha i capelli arruffati e ingialliti dal sole. Ma non è sole di mare, è sole di strada. Si vede la differenza. Mi guarda mentre passo accanto a quel suo mondo per un attimo, mondo fatto di due stanze buie che sembrano così piccole anche per una sola persona.

Sono a due passi da dove sono cresciuta ma non riconosco il mio di mondo, perché all’età di quella bambina seduta per terra, io ero ben pettinata con fermacapelli eleganti e calzini merlettati, facevo le vacanzine di giugno in riviera ligure e da luglio a settembre ero su una spiaggia di Ischia a giocare con le onde.
Quella bambina mi somiglia, ma non sono io.

Questo mondo non lo conosco, inutile mentire. Ne sono venuta a contatto svariate volte, ma mai l’ho conosciuto davvero. Non ci sono nata, ma sono nella stessa città.
Che bisogno c’era di entrarvi a contatto? Forse, prima, nessuno. Ma ora sì.
Che me ne faccio di una città come Napoli se non la vedo nella sua molteplicità. A che mi serve giudicare bastardo un mondo che non conosco.

C’è un pallone a terra. Un ragazzino in pantaloncini già corre su e giù urlando alla mamma che lo chiama dalla finestra di un mezzo primo piano, alto abbastanza da non sembrare un basso.
La signora mi sorride, mi dice che è meglio se mi sposto perché il figlio è capace di darmi un pallone in testa mentre gioca.

Vuoi che mi sposto, devi giocare a pallone? – chiedo a lui.
– No, vabbè. È sgonfio. 
Me ne sono accorta. E ora come giochi?Qualcuno lo comprerà, mi dice.
Il caldo sgonfia i palloni, solo lui ne ha già comprati tre di tasca sua, ma visto che se li fottono, ora aspetta che li comprino gli altri. Mi informa che nel pomeriggio forse ci sta una mezza partitella, se voglio vedere come si gioca a pallone, mi assicura che è bravo.
Pure se tu sei femmina, penso che non t’interessa – aggiunge.
In realtà, io sono una femmina a cui piace il pallone, ‘o ssaje?
Ride. Non credo sia convinto del fatto che ad una donna possa piacere il pallone.
Così sbatte il pallone sgonfio contro il muro dei Mastiffs per impressionarmi. Centra perfettamente il muso del mastino.

He visto sì so bbravo? – mi chiede.
Ah, non lo so.
Io sono femmina, non ne capisco assai di pallone, però tieni un bel destro a giro.

 

Ylenia Petrillo

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