Vecienzo d’ò cafè a Largo Baracche.

Esistono storie che hanno il sapore di vittoria, che profumano di riscatto e rivalsa sociale come questa che vi racconto: la storia di Vecienzo d’ò cafè.

Ho intervistato Vincenzo al suo chioschetto dove prepara e vende caffè al Largo Baracche, vicino alla trattoria Da Nennella per portare alla luce, questa volta, non una storia di successi imprenditoriali, di notorietà artistica, di tradizioni culinari ma bensì una storia di vittoria.

Vecienzo d’ò cafè mi prepara il suo primo caffè della giornata per dare la carica ad un intervistatore sbadigliante più che all’intervista, che non ha bisogno di essere ulteriormente eccitata.

Vecienzo d’ò cafè in realtà è meglio noto con un altro soprannome di cui ho voluto chiederne l’origine alla prima domanda alla quale dapprima si è stranito, poi ha cominciato a rispondere non troppo convinto per poi alla fine rabbuiarsi. Allora ho capito che quel soprannome non è solo un insieme di sillabe e consonanti ma è una De Lorean che senza neanche raggiungere le 88 miglia orarie lo riporta indietro nel tempo, ad una vita che non gli appartiene più.

Allora rispetto il suo sentimento e quel soprannome non lo nominerò e mai più ne farò riferimento.

 

 

-Chi sei stato prima di diventare Vecienzo d’ò cafè?

Sono stato un ragazzo del quartiere, appartenente al popolino ed ho preso tutta l’esperienza che è possibile apprendere dalla scuola della strada.

Ora non sono più giovane, sono arrivato fino ad una certa un’età senza stare ad ascoltare i consigli di chi davvero avrei dovuto ascoltare, nun aggio maje vuluto sta a sentì. Oggi con la consapevolezza di quel che è stato il mio percorso dico ai più giovani di stare ad ascoltare chi ha esperienza e può consigliarti una strada più giusta da seguire.

-Tu invece perché non hai mai voluto ascoltare?

Perché sono stato sempre abituato a fare un certo tipo di vita, per me la normalità, la regolarità era quella che vivevo io e chi mi circondava. Pensa che da bambino, all’età di 7-8 anni, quando sbarcavano gli americani e venivano qui io me li trascinavo in giro per portarli a bere.

I giovani di oggi neanche ascoltano?

È un problema che si ripropone di generazione in generazione. Non capiscono che basterebbe un attimo, un momento da concedersi da soli a parlare con la propria coscienza e li decidere quale la strada da seguire. Invece vanno sempre tutti di fretta, sempre affannati nel rincorrere chissà cosa, ad inseguire qualcosa che sicuramente non vale la pena di essere inseguita. Quando vedo dei ragazzi attraversare un giardino mi permetto sempre di dir loro.” Jate chiane, nun currite, nun sapite manco che significa l’addore e nu fiore”. Vedi a volte basta poco, basta fermarsi un attimo e godere della vita che ci circonda per capire il giusto e sbagliato. Dico a loro ciò che anni fa qualcuno avrebbe dovuto dire a me ma io non mai odorato quel fiore da bambino, ora lo faccio ogni volta che posso.

-Cos’è che ha fatto diventare quel ragazzo di strada la persona che oggi sei?

È stata la sofferenza a farmi vedere bene le cose, la sofferenza di essere rinchiuso tra quattro mura. Era la mia prima ma anche ultima volta in carcere.

-L’esperienza carceraria è un punto di non-ritorno, cioè chi passa da lì non ha altra scelta che perseguire la strada della criminalità?

No, ti sbagli. Cioè può essere vero in alcuni casi ma per lo più è un deterrente. Il carcere non è uno scherzo, ti allontana dagli affetti, ti priva di ogni valore, ti spersonalizza, smetti di essere Vincenzo e diventi un numero.

-Una volta fatta quella esperienza come sono andate le cose?

Sono stato scarcerato dopo otto anni e mezzo in stato di semi-libertà, però per poter godere di quella condizione dovevo trovarmi un lavoro. E non era mica facile, prima di essere carcerato avevo lasciato il vuoto attorno a me, ero stato un uragano. Dovevo reinventarmi, ricominciare daccapo e in questo ho ricevuto un grandissimo aiuto da Ciro e Mariano (Trattoria Da Nennella) che mi hanno trasmesso la cultura del lavoro, mi hanno insegnato a confrontarmi dialetticamente con gli altri. Prima “confronto” per me voleva dire far valere la mia legge a suon di “mazzate” e con esse credevo di essere io il più forte, di essere un vincitore. Che illuso che ero, quante stronzate mi passavano per la testa.

Je oggi aggio vinciut. Parlo cu ‘tte e me vene ‘o friddo ‘nguoll.

-Allora sulla base di quello che è stato il tuo percorso cosa diresti ai giovani?

C’avita credere.

 

Addurat ‘è fiori.

 

 

Fabio De Rienzo

 

 

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